Archivio

Archive for the ‘Sociale’ Category

La famiglia, i divorziati e i giovani. Papa Francesco: «Proporre una conoscenza esistenziale di Cristo»

7 febbraio 2014 – Papa Francesco

Il discorso del pontefice ai vescovi polacchi: «Bisogna insistere di più sulla formazione della fede vissuta come relazione, nella quale si sperimenta la gioia di essere amati e di poter amare».

Stralcio del discorso pronunciato da Papa Francesco ai vescovi polacchi ricevuti in visita «ad limina Apostolorum».

FAMIGLIA E DIVORZIATI (…) Prima di tutto, nell’ambito della pastorale ordinaria, vorrei focalizzare la vostra attenzione sulla famiglia, «cellula fondamentale della società», «luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). Oggi invece il matrimonio è spesso considerato una forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno (cfr. ibid.). Purtroppo questa visione influisce anche sulla mentalità dei cristiani, causando una facilità nel ricorrere al divorzio o alla separazione di fatto. I Pastori sono chiamati a interrogarsi su come assistere coloro che vivono in questa situazione, affinché non si sentano esclusi dalla misericordia di Dio, dall’amore fraterno di altri cristiani e dalla sollecitudine della Chiesa per la loro salvezza; su come aiutarli a non abbandonare la fede e a far crescere i loro figli nella pienezza dell’esperienza cristiana.
D’altra parte, bisogna chiedersi come migliorare la preparazione dei giovani al matrimonio, in modo che possano scoprire sempre di più la bellezza di questa unione che, ben fondata sull’amore e sulla responsabilità, è in grado di superare le prove, le difficoltà, gli egoismi con il perdono reciproco, riparando ciò che rischia di rovinarsi e non cadendo nella trappola della mentalità dello scarto. Bisogna chiedersi come aiutare le famiglie a vivere e apprezzare sia i momenti di gioia sia quelli di dolore e di debolezza.
Le comunità ecclesiali siano luoghi di ascolto, di dialogo, di conforto e di sostegno per gli sposi, nel loro cammino coniugale e nella loro missione educativa. Essi trovino sempre nei Pastori il sostegno di autentici padri e guide spirituali, che le proteggono dalle minacce delle ideologie negative e le aiutano a diventare forti in Dio e nel suo amore.

I GIOVANI. La prospettiva del prossimo Incontro mondiale della gioventù, che avrà luogo a Cracovia nel 2016, mi fa pensare ai giovani, che con gli anziani sono la speranza della Chiesa. Oggi, un mondo ricco di strumenti informatici offre loro nuove possibilità di comunicazione, ma al tempo stesso riduce i rapporti interpersonali di contatto diretto, di scambio di valori e di esperienze condivise. Tuttavia, nei cuori dei giovani c’è un’ansia di qualcosa di più profondo, che valorizzi in pienezza la loro personalità. Bisogna venire incontro a questo desiderio.
In tal senso, ampie possibilità offre la catechesi. So che in Polonia vi partecipa la maggioranza degli alunni nelle scuole, i quali raggiungono una buona conoscenza delle verità della fede. La religione cristiana, tuttavia, non è una scienza astratta, ma una conoscenza esistenziale di Cristo, un rapporto personale con Dio che è amore. Bisogna forse insistere di più sulla formazione della fede vissuta come relazione, nella quale si sperimenta la gioia di essere amati e di poter amare. Occorre che si intensifichi la premura dei catechisti e dei pastori, affinché le nuove generazioni possano scoprire pienamente il valore dei Sacramenti come mezzi privilegiati di incontro con Cristo vivo e fonte di grazia. I giovani siano incoraggiati a far parte dei movimenti e delle associazioni la cui spiritualità si basa sulla Parola di Dio, sulla liturgia, sulla vita comunitaria e sulla testimonianza missionaria. Trovino anche le opportunità di esprimere la loro disponibilità e l’entusiasmo giovanile nelle opere di carità promosse dai gruppi parrocchiali o scolastici della Caritas o in altre forme di volontariato e di missionarietà. La loro fede, il loro amore e la loro speranza si rafforzino e fioriscano nell’impegno concreto in nome di Cristo.

Tratto da “TEMPI”

Trauma sessuale e Disturbo Post-Traumatico da Stress

Da una ricerca retrospettiva effettuata su un campione di 2200 donne è emerso che il 5,9% ha subito una qualche forma di abuso sessuale durante l’infanzia e che il 18,1% ha subito sia abuso sessuale che maltrattamento. Le vittime, in genere, rimuovono più o meno parzialmente, il ricordo traumatico e non comunicano la violenza subita.
Pertanto una percentuale bassissima (2,9%) di questa popolazione femminile ha denunciato all’Autorità Giudiziaria l’abuso subito. In ambito medico e peritale l’abuso sessuale si presenta spesso in sovrapposizione ad un’altra situazione clinica: il disturbo post traumatico da stress. L’una è collegata eziologicamente all’altra.
Per il DSM-IV, la violenza sessuale genera una condizione clinica classificabile tra i disturbi d’ansia alla voce: “Disturbo Post-Traumatico da stress”, al pari dell’esposizione a calamità naturali, stati di guerra, gravi incidenti. La violenza o abuso sessuale, infatti, può avere il medesimo impatto sull’esistenza dell’individuo e sulla sua integrità psico-fisica. Non sempre, però, le due situazioni cliniche combaciano o rappresentano l’uno la conseguenza diretta dell’altro. Le diagnosi di Disturbo Acuto da Stress (DAS) e Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS), pur essendo le sole a prendere in considerazione il trauma (la causa) fra i criteri diagnostici, non sono esaustive nel descrivere una serie specifica di sintomi osservabili frequentemente in pazienti affetti da disturbi differenti ma accomunati dalla presenza di vicende relazionali traumatiche nelle proprie storie di vita. In poche parole, manca una collocazione nosografica specifica per i disturbi generati da trauma, in questo caso da trauma sessuale, da affiancare alle comuni diagnosi psichiatriche del DSM.
Possiamo affermare, senza con ciò minimamente sminuire la portata patogenetica di un evento così distruttivo, che non sempre la diagnosi di Disturbo Post Traumatico da Stress può essere effettuata in seguito ad un abuso sessuale.
IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS
Secondo il DSM IV-Tr, prima di effettuare una diagnosi si DPTS, nella persona devono manifestarsi segni di evitamento, sintomi di aumentato arosoul, disagio e malfunzionamento significativi, tutto per più di un mese. Più specificatamente i sintomi caratteristici derivati dall’esposizione a un trauma includono:

  • l’evitamento: il soggetto si sforza volontariamente di evitare pensieri, sentimenti o conversazioni che riguardano lo stupro e le violenze sessuali, e così pure persone, situazioni, attività che possono esservi associate.  Sono frequenti le amnesie legate al momento in cui è avvenuta la violenza sessuale.
  • l’ansia: è presente una sintomatologia ansiosa e un aumento dell’eccitazione (arousal) non presenti prima del trauma che si manifestano con insonnia, difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, incubi. Possono essere presenti: ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, irritabilità o scoppi di ira o difficoltà a concentrarsi sui compiti.
  • “Anestesia emozionale”: dopo l’esposizione al trauma, può verificarsi anche un appiattimento della reattività verso il mondo esterno, definita “paralisi psichica” o “ anestesia emozionale”. Questo sintomo fa sì che si manifesti una diminuzione dell’interesse o della partecipazione ad attività precedentemente piacevoli, sentimenti di distacco e di estraneità, una diminuita capacità di provare emozioni e mancanza di prospettive per il futuro.
  • La persona può provare incapacità a fare progetti, un senso di diminuzione delle prospettive future (non aspettarsi di sposarsi, avere figli, una carriera, una normale durata di vita) (Ammaniti, 2001).

IN AMBITO GIURIDICO                   Durante un’indagine o nel corso di una perizia è necessario:
1) Valutare l’attendibilità della testimonianza (soprattutto per i minori) al fine di accertarsi che la violenza sessuale sia realmente accaduta o se si tratta di false accuse da intendersi per esempio come manifestazioni di una pregressa conflittualità familiare (separazioni conflittuali, Sindrome d’Alienazione Parentale, ecc.).
Le false dichiarazioni possono riguardare:

  • fraintendimenti
  • racconti non veritieri
  • alterazioni volontarie
  • errori professionali

2) Escludere eventuali altre situazioni alla base del disagio che la persona manifesta
3) Effettuare un’ipotesi psicodiagnostica sull’attuale condizione della vittima
A tal proposito, l’art. 8 della CARTA DI NOTO (LINEE GUIDA PER L’ESAME DEL MINORE IN CASO DI ABUSO SESSUALE) si legge: 2002: art. 8 “I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sé l’abuso.”
Lo stupro o qualunque induzione ad atti sessuali di una persona che non è in grado di scegliere, determina, inevitabilmente ed indipendentemente dall’età, l’insorgenza di una condizione morbosa post-traumatica nella quale il soggetto:

  • subisce intrusivamente il presentarsi di pensieri inerenti al trauma;
  • tenta di far sparire il ricordo della violenza sessuale dalla coscienza negandola, cercando di minimizzare, di non pensare.

Ciò però non conduce inevitabilmente ad una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress. Sostiene Carbone P. e Cimino S., in “Manuale di psicopatologia dell’adolescenza”, a cura di Ammaniti M. (2002): “Nell’ambito stesso dell’abuso è importante distinguere due grandi aree:

  • l’abuso esercitato da estranei come atto di dichiarata violenza (come può verificarsi in situazioni estreme, quali la guerra) e
  • l’abuso esercitato da figure non esplicitamente nemiche (come nell’incesto) in cui la violenza è sotterranea e mascherata dal gioco della dipendenza e della seduzione.

Nel primo caso la psicopatologia della violenza sessuale è paragonabile, seppure per grandi linee, ad altre forme di violenza centrate sull’attacco all’integrità corporea (torture, deprivazioni estreme ecc.) e caratterizzate dal fatto che l’altro (il carnefice, il violentatore) ha cancellato ogni legame primario con la sua vittima: “il rifiuto di questo fondamentale riconoscimento umano costituisce il nucleo originario del trauma psichico di tipo massivo” (Lamb, Podell, 1995) e le conseguenze psichiche possono essere inquadrate nell’area sintomatologica del DPTS (Disturbo Post-Traumatico da Stress) (McLeer et al., 1994)”.
Continuano gli autori: ”Mentre la psicopatologia del DPTS è innescata dalla inattesa violenza dell’esperienza, nel caso dell’abuso, l’effetto psicopatologico è sostenuto prevalentemente dalla relazione di sottomissione e di complicità in cui la vittima si sente di essere stata coinvolta e che alimenta i sentimenti di colpa, di vergogna e il deficit di autostima che caratterizzano il vissuto dell’adolescente abusato”.
MECCANISMI DI COPING POST EVENTO TRAUMATICO: I FATTORI DI PROTEZIONE
Ogni individuo è dotato di risorse interne, più o meno importanti, che determinano l’epilogo di una situazione traumatica. I fattori che consentono al soggetto di reagire o di affrontare e superare un evento traumatico vengono definiti fattori di resilienza.
La risposta soggettiva agli eventi è oltremodo condizionata da alcuni importanti fattori come: l’età al momento della violenza subita, la durata, l’uso esplicito di violenza, la presenza o meno di penetrazione, le problematiche psicologiche già presenti, la possibilità di parlare dell’accaduto con qualcuno, il sostegno emotivo ricevuto dai propri cari, ulteriori esperienze che possono peggiorare la situazione o, al contrario, aiutare a superare gradualmente l’accaduto.
Paradossalmente, alcuni soggetti hanno mostrato che il trauma può evocare anche aspetti forti e potenti, comportando sotto certi aspetti una crescita personale fuori dal comune. Diversi studi si sono concentrati sulla cosiddetta “crescita post-traumatica”, cioè la possibilità di arricchirsi, ritrasformare un episodio negativo in uno stimolo al miglioramento, attraverso lo sviluppo di competenze in stretta connessione con la riscoperta di una capacità di affrontare eventi anche molto critici.
L’empatia, per esempio, può essere amplificata dalle esperienze traumatiche. Sembra, infatti, che la sofferenza insegni a comprendere meglio le altre persone, sostenendo una capacità emozionale che risulta estremamente utile per coltivare i rapporti che possono costituire una risorsa fondamentale per il superamento di stati di disagio. Generalmente la vittima di un abuso lotta per mantenere lontani i ricordi traumatici.
I meccanismi di difesa invalidano le normali funzioni metacognitive e le funzioni superiori della coscienza in generale, impedendo l’integrazione del ricordo traumatico che rimane tuttavia impresso nel corpo (Tagliavini, 2011). Talvolta può verificarsi che, almeno in alcuni periodi della vita, la vittima soffra di amnesie più o meno intense rispetto all’evento o abbia ricordi estremamente confusi.
Ciò che può accadere è che il ricordo traumatico, si neutralizzi, perdendo la sua valenza drammatica che lo contraddistingue, risultando più facile da gestire seppur in una situazione di “molteplicità non integrata degli stati dell’Io” (Liotti e Farina, 2011, pg 37). Da ciò la persona può trarne si un vantaggio, ossia la possibilità di ridurre il vissuto d’angoscia rispetto all’evento, ma si espone ad un serio pericolo, ovvero l’abitudine a convivere con il disagio procurato dall’abuso senza avvertire la necessità di affrontarlo adeguatamente. In alcuni casi, questo stato di cose può prendere la configurazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress in remissione parziale.
I FATTORI PREDISPONENTI ALLA RISPOSTA TRAUMATICA
I dati epidemiologici dimostrano che non tutti i soggetti esposti allo stesso evento traumatico reagiscono alla stessa maniera e, solo una modesta percentuale, sviluppa un quadro psicopatologico rilevante. Esistono, tuttavia, altri fattori che rendono l’individuo vulnerabile e lo predispongono a reagire in modo non così adattivo alla traumaticità dell’evento.
Questi fattori sono noti come fattori di rischio e possono includere fattori genetici, familiarità, personalità, traumi pregressi, precedenti problemi psicologici, eventi di vita e, dopo l’episodio, supporto ricevuto. Il peso di questi agenti è probabilmente diverso, e ciascuno potrebbe espletare la sua azione in maniera non assoluta ma rendendo l’individuo vulnerabile ciascuno a stimoli di diversa intensità. Chiaramente il DPTS può essere diagnosticato in qualunque individuo, indipendentemente dai fattori di rischio o di resilienza presenti.
LA PREVALENZA DEL DPTS
La comparsa di DPTS nella popolazione civile riguarda i seguenti traumi vissuti nella vita quotidiana:

  • Episodi di violenza fisica e sessuale;
  • Incidenti stradali;
  • Criminalità, furti e rapine;
  • Incendi;
  • Lutti, gravidanze, rifugiati politici;
  • Professioni più esposte a rischio (agenti di pubblica sicurezza, vigili del fuoco, membri della protezione civile, autisti di autoambulanza, bancari, prostitute, operatori di soccorso) (Colombo, Mantua, 2001)

TIPOLOGIA DI TRAUMA E DPTS: POSSIBILI CORRELAZIONI
Le donne sono le più soggette ad episodi di violenza fisica; la violenza sessuale è l’evento traumatico più frequente nella popolazione femminile. La comparsa di un DPTS pare essere collegata eziologicamente alla tipologia e alla portata del trauma subito: la violenza sessuale risulta quella maggiormente determinante. Meno lo sono rapine, scippi o violenze fisiche.
Le caratteristiche dell’episodio di violenza, quali il fatto di essere aggrediti da un estraneo, l’uso della forza fisica, l’essere minacciati con armi da fuoco, sono associate allo sviluppo del DPTS (Colombo, Mantua, 2001). È importante valutare non solo il momento della violenza, ma anche quanto avvenuto prima e dopo nella storia della vittima.  La gravità della violenza subita sembra determinare l’immediata comparsa del DPTS acuto. La cronicizzazione della patologia, invece, si verifica in soggetti con maggiore vulnerabilità alla violenza con personalità premorbosa o con pregresso abuso sessuale.
Anche la presenza di una familiarità positiva per patologie depressive sembrerebbe influenzare la diagnosi di DPTS. Esistono alcune condizioni psico-sociali che permettono di ipotizzare se, in seguito all’evento traumatico, è possibile che si manifesti un disturbo post-traumatico da stress.
Per quanto riguarda gli indicatori psicologici, ad esempio: – la presenza e l’intensità della rabbia, ad un mese dall’episodio, può permettere di predire la gravità del disturbo – la dissociazione farebbe ipotizzare un futuro peggioramento del funzionamento dell’individuo e la presenza di sintomi a tre mesi dall’episodio sarebbe indice di una cronicizzazione del disturbo.
Dal punto di vista sociale, sebbene si possa pensare che il supporto della comunità e una tempestiva consulenza psicologica e assistenza legale e medica possano aiutare molte donne ad affrontare ciò che hanno appena vissuto, per alcune può essere fonte di stress e ciò potrebbe contribuire ad aggravare il quadro clinico del disturbo, influendo sul decorso dello stesso.
Le violenze domestiche assumono proporzioni sempre più allarmanti.  Gli abusi da parte del partner o di individui facenti parte il nucleo parentale sono un fenomeno sottostimato che si manifesta in forme molteplici, quali abusi sessuali, aggressione fisica, minacce di aggressione, intimidazione, controllo, stalking, violenza psicologica, trascuratezza, deprivazione economica.
L’incesto costituisce probabilmente la situazione più drammatica. Alcuni studi sulla sindrome post traumatica correlata allo stupro, condotte da Jean-Michel Darves-Bornoz evidenzia come le vittime di incesti siano maggiormente a rischio di DPTS, di sintomi dissociativi, di agorafobia e di perdita dell’autostima rispetto alle vittime di violenze non incestuose. Anche i maschi, vittime di violenza sessuale, sviluppano al pari sintomi post traumatici al pari delle donne.
CONCLUSIONI
E’ complesso discernere quali eventi stressanti della vita siano potenzialmente causa di DPTS. Di certo, negli ultimi tempi, le diagnosi in questa direzione sono notevolmente aumentate, soprattutto nella popolazione generale.
Rispetto al passato, infatti, in cui il DPTS prevaleva tra reduci di guerra o superstiti di calamità naturali, oggi sono contemplati anche tra gli agenti di pubblica sicurezza, i macchinisti, i lavoratori a rischio, i dentisti, i conducenti di ambulanza ecc. Anche in materia di abuso sessuale, nonostante l’indiscutibile condannabilità dell’atto violento, è necessario procedere con cautela nell’emettere una diagnosi. Ricordando le considerazione della Glaser (2000) possiamo affermare che trauma e abuso non sono sinonimi.
Spesso l’abuso sessuale assume una valenza talmente traumatica da generare quadri sindromici ben più complessi che il DPTS (basti pensare ai minori e agli effetti pervasivi sullo sviluppo). Allo stesso non si può considerare il DPTS come una conseguenza inevitabile dell’abuso ne si possono indicare come causa di DPTS tutti gli eventi negativi della vita.
Per muoverci con maggior accuratezza in questo ambito diagnostico sarebbe sempre preferibile procedere caso per caso, tenendo conto delle gravità, della minacciosità e dell’imprevedibilità dell’evento traumatico.

Autori *Dott. David Scaramozzino: Psicologo Clinico – Psicoterapeuta Strategico Breve, Esperto in psicologia delle Dipendenze e Psicologia Giuridica. Dott. Maria Antonietta Mastrangelo: Psicologo clinico Dott. Simona Falasca: Psicologo clinico Dott.Roberta Federico: Psicologo clinic

Bibliografia

American Psychiatric Association (1994),  DSM-IV : Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4° ed. Masson, Milano. Ammaniti M., (2001), Manuale di Psicopatologia dell’adolescenza, Raffello Cortina Editore, Milano.Ammaniti M., (2001), Manuale di Psicopatologia dell’infanzia, Raffello Cortina Editore, Milano. Camerini G.B., Sabatello U., (2011), La valutazione del danno psichico nell’infanzia e nell’adolescenza, Giuffrè, Milano. Cerisoli M., Vasapollo D., (2010), La valutazione medico-legale del danno biologico di natura psichica, ed. Seu, Milano. Carta di Noto aggiornata 2002; Colombo P.P., Mantua V., (2001),  Il disturbo post traumatico da stress nella vita quotidiana Rivista di Psichiatria, Verona. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano. Mazzoni G. ,Rotriquenz E., (a cura di), La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè Editore, 2013 Darves-Bornoz JM, Berger C, Degiovanni A, Gaillard P, Lepine JP: Similarities and differences between incestuous and non-incestuous rape in a French follow-up study. Journal Trauma Stress, 1999, 12 613-623.

Sitografia http://www.SynergiaCentroTrauma.it

Pubblicato da “OPSonline”

 

Le donne sono più intelligenti degli uomini

Le donne sono più intelligenti degli uomini. Forse lo sono sempre state, da Adamo ed Eva in poi, ma in passato non riuscivano ad esprimere in pieno tutto il loro potenziale. Oppure lo sono diventate in era più recente, grazie allo stress di dover combinare famiglia e lavoro, casa e carriera, insomma allo sforzo di dover fare più cose contemporaneamente. Come che sia, per la prima volta le femmine ottengono mediamente risultati migliori dei maschi nei test sul quoziente d’intelligenza.
Non era mai successo. Non succede in ogni Paese, ma la tendenza è chiara ed evidente: “L’effetto della vita moderna sul cervello delle donne sta appena cominciando ad emergere”, afferma James Flynn, lo psicologo considerato la maggiore autorità mondiale in materia, ora in procinto di pubblicare un nuovo libro in cui analizza il “sorpasso” femminile in questo campo.
La storia dei test sul quoziente d’intelligenza (QI) è controversa. È sempre stato oggetto di dibattito se ottenere un alto punteggio sia un metodo accurato per misurare l’intelligenza assoluta. Spesso i risultati dei test sul QI sono stati usati impropriamente per sostenere la superiorità di una razza su un’altra, o di un sesso (quello maschile) sull’altro. E tuttavia i test vengono abitualmente utilizzati come sistema di analisi in ambito accademico, lavorativo, sociologico.
Una cosa è certa: negli ultimi decenni, i punteggi medi hanno continuato progressivamente a salire, sia per gli uomini che per le donne. Proprio una scoperta del professor Flynn, negli anni ’80, ha stabilito che, perlomeno nei Paesi occidentali, i risultati dei test crescono mediamente di tre punti ogni decennio, per cui un europeo odierno dovrebbe ottenere un punteggio di trenta punti più alto dei suoi nonni o bisnonni. “È una conseguenza della modernità”, dice Flynn al Sunday Times, “la complessità del mondo moderno ha spinto i nostri cervelli ad adattarsi e ha fatto crescere il nostro QI”.
Ma la modernità, aggiunge lo studioso, sembra avere agito da stimolo più sulle donne che sugli uomini. I dati da lui raccolti indicano infatti che il QI femminile è cresciuto ancora di più di quello maschile. Il risultato è che in certe nazioni, come l’Australia, maschi e femmine ottengono ora in media un punteggio identico. In altri Paesi, come la Nuova Zelanda, l’Estonia e l’Argentina, dove il professor Flynn ha iniziato le sue ricerche, le donne hanno adesso superato gli uomini. Un evento significativo, poiché è la prima volta che accade su larga scala.
Due le teorie per spiegare il fenomeno. Una è che le donne d’oggi, costrette a una vita multitasking in cui devono giostrare allo stesso tempo famiglia e lavoro, abbiano sviluppato una maggiore intelligenza. L’altra è che abbiano sempre avuto potenzialmente un’intelligenza superiore agli uomini, ma solo adesso possano esprimerla, perché più libere di avere un ruolo autonomo. “Le donne sono state per secoli il sesso svantaggiato, represso”, commenta Flynn. “Ora che sono diventate indipendenti si vede meglio quanto valgono”.
Emma Gordon, una studentessa laureatasi alla Bristol University con il massimo dei voti, concorda: “Oggi è diventato socialmente accettabile che una donna sia più intelligente di un uomo e i dati scientifici lo dimostrano”. Helena Jamieson, uscita da Cambridge con un dottorato, crede che sia stato sempre così: “Sotto sotto noi donne abbiamo sempre saputo di essere più intelligenti degli uomini, ma in passato dovevamo attenerci allo stereotipo del “gentil sesso”, perciò abbiamo lasciato credere che fossero più intelligenti loro”.
Articolo di Enrico Franceschini, tratto da: http://www.repubblica.it
Pubblicato da “OPSonline”
Categorie:Adulti, Psicologia, Sociale

Chi ha paura di Roberta Bruzzone?

Chi ha paura di Roberta Bruzzone?
Posted on 27 novembre 2010 by Dimitra Kakaraki

SEGNALAZIONE
A questo indirizzo http://tg7.la7.it/Cronaca/video-345733 è in rete un’intervista fatta dal TGLa7 alla psicologa Bruzzone definita però criminologa. Considerando ciò che dice in questa intervista è possibile chiarire quali sono le competenze e soprattutto i limiti di uno psicologo che si esprime sui media su casi che non conosce direttamente (oggi la dottoressa è consulente di parte ma al tempo dell’intervista non lo era) arrivando anche a parlare di concetti quali l’infermità mentale? Richiamandosi alla carta dei doveri del giornalista che è tenuto a non generare nello spettatore errate percezioni è possibile ravvisare in questa intervista (e se ne parla in termini generali e non diretti alla collega) delle “violazioni” lesive dell’immagine dello psicologo oramai visto come un veggente del crimine, e soprattutto è deontologicamente corretto assumere la consulenza della difesa di una persona che pochi giorni prima si era definito pedofilo assassino?
Grazie della vostra risposta che potrebbe chiarire molti dubbi, prima di tutto alla sottoscritta.
Lettera Firmata

PARERE DI Valeria La Via
Ce lo siamo chiesto tutti: è davvero indispensabile (o così facile), in un contesto mediatico, spogliarsi di quell’ habitus scientifico che consiste nel basare le proprie valutazioni su dati attendibili e completi e sulla conoscenza diretta? È una colpa tanto grave eludere una domanda quando non abbiamo niente di speciale da dire? Che ci vuole, quando la parrucchiera o un giornalista ci chiedono un parere esperto sui delitti di grande risonanza mediatica, a rispondere: “Guardi, ne so quanto lei: conosco il caso solo dai giornali”? E’ vietato porre dubbi, usare i condizionali, prospettare scenari alternativi? A giudicare dai successivi sviluppi delle indagini, la dott. Bruzzone sembrerebbe la prima vittima della sua stessa imprudenza.
E invece no. Ella è oggi consulente della difesa dell’uomo che solo poco tempo prima, nel video segnalato, aveva inquadrato come un pedofilo omicida. Lungi dal non riuscire a prendere sonno per la vergogna, Bruzzone rilascia un’intervista al “Corriere della Sera” del 14 novembre in cui, per controbattere alle critiche per le sue incaute valutazioni, afferma: “Sono tutti esperti col senno del poi…soltanto gli stupidi non cambiano mai idea e poi in questa storia tutti quanti abbiamo detto qualche cazzata [sic]. La differenza è che io lo riconosco”.
Ma come, “tutti quanti”? Chi sarebbero costoro? Non certo le persone di buon senso (non occorre scomodare i codici deontologici per capire quanto valga un giudizio espresso in quella fase dell’indagine e da quella posizione), tra le quali si annovera un grande numero di psicologi e criminologi, che non hanno affatto cambiato idea per il semplice motivo che non avevano avuto modo di formarsela.
Vero è che la qualifica di “criminologo” di cui preferenzialmente si fregia la dott. Bruzzone ha assunto nei media un’accezione vasta e imprecisa, fino ad abbracciare discipline che la criminologia vera e propria distingue dal proprio ambito di ricerca. Sta di fatto che, a esaminarne il curriculum, la dott. Bruzzone sembra semmai esperta di criminalistica, di tecniche di investigazione, che sono altra cosa dalla criminologia in senso stretto. D’altro canto, è ovvio che in sette anni di iscrizione all’Albo questa collega non potrà certo avere acquisito competenze di ogni tipo: ha giusto frequentato un paio di corsi di perfezionamento (da cui trae la gustosa quanto inesistente qualifica di “perfezionata”: chissà se, qualora facesse qualche più impegnativo Master conseguendo il diploma, si definirebbe masterizzata!), che non sono certamente sufficienti a erogare una formazione equiparabile a quella delle vecchie e purtroppo soppresse scuole di specializzazione in criminologia.
A onor del vero, va chiarito che la dott. Bruzzone non esprime concetti che richiedano speciale competenza. Per prevedere che la difesa di un imputato invochi l’infermità mentale basta aver sentito parlare degli artt. 88 e 89 del Codice Penale che trattano dell’imputabilità di chi “per infermità” (è questa l’espressione letterale) si trovi, al momento della commissione del fatto, “in tale stato di mente” da escludere o limitare in modo importante la capacità di intendere e di volere. Così pure, a dire “pedofilo” son buoni tutti, anche se, a voler sottilizzare, il pedofilo psicopatico di cui parla Bruzzone è profilo su cui la casistica non è poi così abbondante; non vi è nemmeno consenso degli esperti sui pochi casi che sono stati esaminati direttamente (basti pensare al caso Chiatti), ma chissà, magari nel data base dell’FBI ce ne sono a bizzeffe.
Inoltre, non è poi così evidente che chi sta parlando nel video in oggetto sia proprio una psicologa. Il tono di voce poco modulato e autoritario, la parlata frettolosa e senza pause, la mimica della parte finale sembrano più tipici del codice comunicativo di altre figure sociali, più interessate all’azione e alla persuasione che all’ascolto e alla comprensione. Quanto ai contenuti, che cosa c’è di psicologico? Essi sono palesemente strumentali alla pubblicizzazione di Telefono Rosa, di cui Bruzzone è consulente, e questo intento viene perseguito mediante un’adesione collusiva alla reazione sociale al crimine. Bruzzone si immedesima nel sentire della folla impaziente di linciare il mostro, apparentemente senza nulla chiedersi sulle conseguenze drammatiche che, sull’onda della suggestione emotiva di un delitto di forte risonanza mediatica, possono derivare dalla sua sollecitazione a denunciare parenti e conoscenti “sospetti” di pedofilia.
Non è certo un approccio da psicologo, che semmai si sforzerebbe di fare da “filtro” e da ragionevole sedativo rispetto agli umori della folla, favorendo il pensiero come sostituto dell’azione violenta e come risorsa per elaborare la ferita che ogni crimine infligge alla società. Forse il nostro disagio deriva da quel senso di responsabilità sociale che è nella cultura e nell’etica dello psicologo e che questo stile di comunicazione ci sembra disattendere, non sappiamo se a causa del set televisivo o del setting interno del giornalista o dell’esperto. Sta di fatto che il mondo dello psicologo sembrerebbe profondamente diverso da quello di questa figura di criminologa all’americana che Bruzzone ha avuto l’iniziativa di sdoganare sui media, dopo i Picozzi e tutti gli altri (dei quali bisogna dire che sono altrettanto poco identificati nella comunità dei medici con cui condividono l’iscrizione ad albo professionale).
Certamente chi fa la segnalazione coglie una distanza abissale tra questo stile comunicativo e la cultura condensata nell’art. 39 del nostro Codice Deontologico: “Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte”. Oltre alla difficoltà di comprendere quali siano le effettive competenze professionali di questa esperta, il suo codice comunicativo non è certo quello dell’informazione che consente all’altro di formarsi idee personali, ma è più vicino a quello persuasivo che conosciamo dalla pubblicità o, negli ultimi anni, dalla politica.
D’altra parte, la dott. Bruzzone non sembra affatto interessata, nella sua veste di commentatrice di fatti di cronaca nera, a riconoscersi nella cultura, e quindi nella deontologia, degli psicologi. Quando dice “tutti quanti abbiamo detto qualche cazzata”, è evidente che questi “tutti quanti”, l’insieme in cui si identifica, sono solo gli altri “esperti” televisivi (che peraltro non coincidono con quelli che, invece, vengono prescelti dalla stampa più autorevole e attenta), per i quali, proprio come per i politici, il fatto di parlare dietro una telecamera conta di più di quello che viene detto, e l’appartenenza a una professione funziona solo come un credito di accesso meramente formale. Né ella sembra sospettare l’esistenza di un mondo retto da diversi valori e ambizioni. A proposito delle critiche sulle affermazioni in cui si era prematuramente lanciata si esprime come un’attrice: “è tutta invidia”, dice nella citata intervista al “Corriere”, presumendo che chiunque altro debba per forza desiderare di essere al suo posto. In questa visione, conta solo essere dalla parte emittente della TV; chi sta dall’altra parte è un fesso, un frustrato, un cretino.
Segue la logica della rappresentazione mediatica anche il suo nuovo ruolo di consulente della difesa, e da questa parte del teleschermo non è dato capire se sia stato richiesto perché il consulente che cambia idea risulta più credibile o se l’idea della consulente sia cambiata a seguito dell’assunzione dell’incarico. Se però la dottoressa è in grado di svolgerlo nell’interesse del suo cliente, in base a quel che sappiamo non abbiamo motivo di sospettare alcuna incompatibilità. Diverso sarebbe se l’incarico venisse conferito da un giudice, ma si tratta di una prospettiva decisamente fantascientifica.
In definitiva, a me sembra che vi sia un divario incolmabile tra Bruzzone iscritta ad albo, che, forse, altrove lavora come psicologa, e quest’altra Bruzzone che fa tutt’altro lavoro, ospite di set televisivi in cui va in onda continuamente uno spettacolo osceno e privo di alcun interesse, dove per ore e ore alla miseria psichica dei protagonisti fanno eco le banalità di esperti che non rappresentano altri che se stessi. Esperti che iterano la loro presenza fino a saturazione per poi venirne espulsi per lo stesso motivo per cui vengono a noia le pubblicità. Toccherà anche a Bruzzone e a chi prenderà il suo posto.
Non vedo dunque il rischio di lesione dell’immagine dello psicologo, che ben si rappresenta su altre scene assai più popolate, e che con questi opinionisti ha lo stesso rapporto che il medico di base ha con i Picozzi e i Mastronardi, ossia poco a che vedere. Rischio vi sarebbe, semmai, se colludendo con questi fenomeni mediatici attribuissimo loro un peso maggiore di quello che hanno effettivamente e che si misura dalla scarsissima consistenza delle opinioni degli esperti.
Salvo interrogarci tutti i giorni su quel pezzettino di Bruzzone che certamente è in ognuno di noi anche se forse, davanti a una telecamera e a un giornalista che incalza, non sapremmo proprio far meglio di lei.

Tratto da: OSSERVATORIO DI PSICOLOGIA NEI MEDIA NEWS LETTER DI NOVEMBRE

COMMENTI

1. Segreteria ICAA – dicembre 1st, 2010 at 13:04 http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=40412

In questa intervista molte delle parole che vengono attribuite a Roberta Bruzzone in realtà sono “tratte” da un articolo pubblicto da altro studioso, come si può notare in uno dei commenti a fondo articolo. http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=40412i sembra un comportamento etico?

2. Vittorio Sacchi – dicembre 1st, 2010 at 14:41

Sottoscrivo pienamente il commento della collega La Via, di cui ho apprezzato la chiarezza.
Mi chiedo se in casi come questi non sia opportuno, per non dire doveroso, un intervento dell’Ordine per un richiamo o con ulteriori severi proveddimenti in base ai suddetti articoli del codice deontologico.
Cordiali saluti.

3. Giada – dicembre 3rd, 2010 at 19:48

Confermo l’opinione della collega La Via e non riesco a capire come possa ancora avere una credenza sociale una persona come la Dott.Bruzzone. L’Ordine dovrebbe fare qualcosa.

4. Antonella – dicembre 6th, 2010 at 14:31

L’analisi della Dott.ssa La Via è seria e puntuale. Mi chiedo come siano ammesse certe cose da parte di emittenti televisive che propinano al pubblico “esperti” o “pseudo esperti” (meno male che Internet è propensa ad una informazione più aperta e critica). Speriamo vivamente che l’Ordine prenda posizione, anche perchè dopo tutti i commenti letti sugli psicologi da parte di molti utenti (ed è questo che dovrebbe far pensare!) c’è da preoccuparsene seriamente.
Continuate con queste iniziative!

 
5. Nicola Facco – dicembre 7th, 2010 at 16:07

Cara Valeria La Via: BRAVA. Ben esposto e argomentato il tuo parere, che condivido in toto; aggiungo a quanto hai scritto, che anche la signora presentatrice, attrice e “giornalista” Barbara Durso sta abusando dei programmi che conduce per “sentenziare” continuamente senza oggettività e propinare ore e ore di trasmesse interviste su casi di cronaca nazionale non bisognevoli di tanta ribalta e tanta quotidianità. La conduzione di interminabili dirette TV con la prassi del “dico non dico” pur di trattenere il telespettatore affamato di notizie per fare odience non si può e non si deve sempre giustifucare con il ricorrente “dovere di cronaca”: argomenti ancora in fase d’indagine devono essere rispettati come le persone che ne sono coinvolte. La brama di verità rispetto a fatti deprecabili da tutta la società viene fagocitata e sarebbe cosa buona e giusta solo una giusta e misurata cronaca dei fatti che veramente si conoscono.

Stress lavoro-correlato per 1 italiano su 4: allarme precari e anziani

Dietro la scrivania o in fabbrica, il nemico della salute dei lavoratori è uno solo e si chiama stress. Un disturbo emergente: ne soffre 1 italiano su 4 (il 27% dei lavoratori) e  il rischio di incapparvi è in crescita, con il boom del precariato e l’aumento dei dipendenti anziani. Risultato: in Italia c’è lo stress da lavoro dietro oltre la metà delle giornate di lavoro perse in un anno. Sono i dati dell’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro). Numeri superiori alla media registrata in Europa, dove lo stress interessa circa il 22% dei lavoratori, con costi che si aggirano intorno ai 20 miliardi di euro l’anno, fra spese sanitarie e giornate di lavoro perse. Ma secondo stime più recenti, il conto che le aziende devono pagare per lo stress subito dai propri dipendenti sta diventando sempre più salato. Uno studio pubblicato nel 2009 dall’European Heart Journal calcola che solo il trattamento sanitario del disturbo depressivo collegato incide direttamente sull’economia europea per 44 miliardi di euro, con una perdita di produttività pari a 77 miliardi di euro. In Italia, una legge prende in considerazione il problema introducendo l’obbligo per tutte le aziende, a partire dal primo agosto p.v., di valutare e misurare il livello di stress dei propri dipendenti. Una scadenza che ha aperto il dibattito sui metodi da adottare per la valutazione del rischio. In futuro, è probabile che il fenomeno aumenti a causa del progressivo accentuarsi di alcuni fenomeni come l’insicurezza dei contratti, l’età sempre più avanzata dei dipendenti e gli alti carichi di lavoro, fattori che portano i lavoratori a percepire uno squilibrio tra l’impegno richiesto e la propria capacità di affrontarlo; questo genera tensione emotiva che, a sua volta, può essere causa di patologie psichiche od organiche, anche molto gravi, che possono portare a situazioni drammatiche come i suicidi di cui le notizie di cronaca danno quotidianamente conto. 

La valutazione del rischio prevede l’analisi oggettiva di dati statistici aziendali e una valutazione soggettiva attraverso, per esempio, interviste o focus group; si delineano anche i possibili interventi correttivi da mettere in campo. Situazioni di malessere si traducono in diminuzione di prestazioni e utile. È strategico cercare di eliminarle o di gestirle, per migliorare il clima aziendale e il benessere dei propri lavoratori.

Fonte: adnkronos

Categorie:Attualità, Lavoro, Sociale

Gaslighting

     

Il termine “Gaslighting” deriva dal titolo del film “Gaslight“, Angoscia (Gaslight) del 1944 diretto dal regista americano  George Cukor con Ingrid Bergman e Charles Boyer. Il film si svolge nell’Inghilterra vittoriana, dove un gentiluomo persuade la giovane moglie ad abitare nella vecchia casa dove è cresciuta e dove fu assassinata (da lui, naturalmente) sua zia e con una diabolica strategia psicologica, alterando le luci delle lampade a gas della casa, la spinge sull’orlo della pazzia (TRAMA: Gregory Anton (Charles Boyer) seduce e sposa Paula Alquist (Ingrid Bergman), nipote di una celeberrima cantante lirica morta in circostanze misteriose. Anton cerca di far impazzire la moglie in modo da poterle rubare la cospicua eredità della zia. Brian Cameron (Joseph Cotten) si accorge di ciò e riesce a salvare Paula facendo arrestare Gregory). Non vi sono parole per descrivere la sensazione di morte imminente che prova la persona colpita da quasto tipo di vessazioni psicologiche: alla vittima viene tolta la speranza del domani e con la certezza che manifesti, quanto prima, problemi psichici.

  
Da qui, il termine gaslighting è utilizzato per definire un crudele comportamento manipolatorio messo in atto da una persona abusante per fare in modo che la sua vittima dubiti di sé stessa e dei suoi giudizi di realtà, cominci a sentirsi confusa, sbagliata e dipendente fino a farla dubitare della sua sanità mentale. Il gaslighter, così viene definito l’attore di tale subdola azione di manipolazione mentale, fa credere alla vittima di stare vivendo in una realtà che non corrisponde alla realtà: in sostanza, agisce su di lei un vero e proprio “lavaggio del cervello”. La ricerca dimostra che, nella stragrande maggioranza dei casi, la vittima e il gaslighter sono relazionalmente vicini, quasi sempre partner o parenti stretti: quindi, il contesto può essere quello di coppia, familiare, amicale e lavorativo (spesso all’interno di rapporti precedentemente fondati sull’amore). Sono numerosi i casi in cui il comportamento di gaslighting è messo in atto dal coniuge abusante per chiudere rapporti coniugali difficili (insoddisfazioni personali, relazioni extraconiugali, ecc…); queste situazioni intime familiari non sono facilmente riconoscibili perchè la violenza diventa insidiosa, sottile, non se ne percepisce l’inizio e, avolte, è scusata dalla stessa vittima. Non si tratta di un’ira, bensì di una lama sottile che s’insinua, molte volte, tra le mura domestiche.

Subentra una frustrazione alla quale non si sa reagire in modo adeguato e che mette in crisi la sicurezza e la fiducia; il gaslighting lascia ferite che nessuno potrà guarire. La vittima viene “deumanizzata” dal persecutore, che attua un atteggiamento pregno di asserzioni che feriscono l’anima e che sono dannose ancor più se pronunciate alla presenza di altre persone; il gaslighter sa come incrementare le ferite: instaura, con il suo comportamento, una relazione narcisistico-perversa, manipola la vittima ottenendiìone il controllo totale e impedendone separatezza e autonomia.

In questo sprofondamento nell’abisso, la vittima attraverserà tre fasi successive: 

1) Incredulità: la vittima non crede a quello che sta accadendo nè a ciò che vorrebbe farle credere il suo persecutore (distorsione della comunicazione con “dialoghi” fatti di silenzi ostili, alternati da picchi destabilizzanti);

2) Difesa: la vittima cerca/inizia a difendersi con rabbia e a sostenere la sua posizione di persona sana e ben radicata nella realtà oggettiva; 

3) Depressione: la vittima si convince che il manipolatore ha ragione, getta le “armi”, si rassegna, diventa insicura ed estremamente vulnerabile e dipendente, si spegnerà piano piano il suo soffio vitale.

Sono classificabili tre categorie fondamentali di manipolatore:
1) il bravo ragazzo che sembra avere a cuore solo il bene della vittima, ma – in realtà – antepone ad ogni altra cosa i propri bisogni; 

2) l’adulatore (il manipolatore affascinante) che attua la manipolazione in maniera strategica lusingando la vittima; è probabilmente il più insidioso, perchè crea disorientamento totale nella vittima;

3)l’intimidatore che – non nascondendosi dietro a false facciate – utilizza il rimprovero continuo, il sarcasmo e l’aggressività diretta.

Si tratta di una grave forma di perversione relazionale che rende le vittime talmente assuefatte e dipendenti da essere, nella maggior parte dei casi, inconsapevoli rispetto a ciò che sta loro accadendo. La violenza si cronicizza non appena la vittima entra nella fase depressiva, quella in cui si convince della ragione e anche della bontà del manipolatore (che si prende cura di lei, la capisce, la sostiene) che non a caso è spesso addirittura idealizzato. Ecco che si crea così il paradosso, in cui la vittima idealizza il proprio carnefice. Proprio per quanto detto finora, è difficile che chi è vittima del gaslighter si renda conto della situazione perversa in cui vive e chieda aiuto, cosa ancor più vera se si pensa che essa diventa così dipendente da isolarsi anche a livello sociale per la paura di essere inadeguata o giudicata pazza.

Più spesso la richiesta di aiuto o la capacità di far “aprire gli occhi” alla vittima arriva da chi le sta intorno, altri familiari, amici o colleghi. E’ allora che può e deve iniziare il percorso di ricostruzione della propria identità, della fiducia e del senso di sè che porti la donna a liberarsi da una relazione perversa e dolorosa.

Quattro italiani su dieci “frustrati” a tavola

 

           

“Vorrei mangiare più sano ma non ci riesco”: è questa l’affermazione che più e meglio descrive il rapporto con il cibo di quasi il 37% degli italiani (quasi 4 italiani su 10), quota che sale al 40,5% tra i 30-44enni, a oltre il 40% tra le donne e sopra il 43% tra le casalinghe. E’ quanto emerge dal primo rapporto Coldiretti/Censis sulle abitudini alimentari degli italiani dal quale si evidenzia che i “frustrati” sono in numero superiore al quasi 33% degli italiani che dichiara di seguire una dieta sana, perché l’alimentazione è tra i fattori importanti per la salute, e sono soprattutto gli anziani (40,3%) e i laureati (37,6%) a praticare questa tendenza salutista.

Informarsi sul cibo, per gli italiani, è sempre più importante: infatti, quasi il 62% degli intervistati si dichiara molto informato sui valori nutrizionali, le calorie e i grassi riguardanti i vari alimenti. Non a caso,poi,  il 34% degli intervistati ritiene che la propria alimentazione dipenda –  in via prioritaria – da caratteristiche e scelte soggettive (che presumibilmente hanno bisogno di tante informazioni per essere adeguate), il 30,4% dalla tradizione familiare e poco meno del 19% da quello che si può permettere, tenuto conto del reddito e dei prezzi. Quanto alle principali fonti d’informazione sugli alimenti, oltre alla televisione è il web (51,1%) la fonte primaria per coloro che le cercano; seguono quotidiani, settimanali e periodici (34%), poi i familiari e gli amici (25,5%) e il 25,6% ricorre invece ai negozianti e al personale del punto vendita.

Come per la salute, anche per il cibo il web è un formidabile moltiplicatore d’offerta informativa e di comunicazione, poiché la sua logica orizzontale facilita la ricerca individualizzata relativa appunto agli aspetti che singolarmente interessano. “Emerge un’importante segmentazione dei comportamenti con oltre 1/3 degli italiani che riconosce il valore dell’alimentazione e si comporta di conseguenza, 1/3 che per stile di vita, tentazioni e stress – pur consapevole – non riesce a comportarsi correttamente e 1/3 che non è attento alla tavola per mancanza di conoscenza” ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini nel sottolineare che “su quest’ultimo segmento occorre responsabilmente lavorare in un Paese come l’Italia che non può più permettersi di dare per scontata la qualità del cibo portato in tavola come avveniva nel passato quando gli effetti della globalizzazione non erano così rilevanti”.

Tratto da opsonline

Fonte: Coldiretti

Stalking – bilancio a un anno dall’entrata in vigore della legge antistalking. (tratto da VITTIME CONTRO, di A. Fabiani – POLIZIAMODERNA)

Legge antistalking, introdotta nel codice penale con DL n. 11 del 23 febbraio 2009.

Migliaia di donne hanno reagito alla violenza psicologica, e spesso anche psicofisica, fatta di controlli esasperati, telefonate, sms, pedinamenti, appostamenti, minacce da parte di conoscenti, colleghi di lavoro o partner che possono durare per lunghi periodi temporali finendo per trasformare la vita in un vero incubo. Tantitssime donne hanno vinto la vergogna e il timore trovando il coraggio di denunciare il proprio aguzzino (il reato previsto dall’art. 612bis punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da procurare un perdurante e grave stato d’ansia).

Alcuni dati: le cifre elaborate dai database interforze indicano 5.153 delitti commessi per questo reato e 5.369 persone denunciate, 942 arrestati e 1.020 provvedimenti ammonitivi emessi dal questore e 1.313 divieti d’avvicinamento. I delitti di stalking riguardano, in particolare, le regioni più grandi quali Lombardia (727), Piemonte (462), Campania (458), Toscana (455), Sicilia (434), Puglia (402) e Lazio (371) (Fonte: Direzione centrale polizia criminale – Banca dati interforze). Questi dati testimoniano che “la norma è stata senza dubbio utile perchè ha permesso di inquadrare in una precisa fattispecie penale un insieme di condotte che, precedentemente, non erano di per sé nemmeno reati” (Tiziana Terribile, direttore della Divisione analisi dello S.C.O. – Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato). Le vittime denunciano e molte di loro si sono rivolte alle forze di polizia per utilizzare anche il semplice “ammonimento”, uno strumento previsto dalla legge che permette alla vittima di poter richiamare il persecutore alla sua condotta e invitarlo a interromperla. L’impegno della Polizia su questo fenomeno è stato supportato e garantito anche grazie al progetto Silvia (Stalking inventory list per vittime e autori) condotto con il Centro studi vittime Sara, che hanno fornito sufficienti informazioni per inquadrare le diverse tipologie dello stalker, in prevalenza appartenente al sesso maschile (13% femmine vs 87% autori maschi). Inoltre, il 70% dei persecutori conosce le proprie vittime per essere stato un partner o un ex e, nella maggior parte dei casi, è l’interruzione di una relazione affettiva che può far scatenare un comportamento compulsivo fatto di minacce e pedinamenti.

Al momento, sul fronte dei progetti riguardanti lo stalking, una serie di tavoli tecnici interistituzionali sta lavorando all’attuazione del protocollo firmato dal ministro delle Pari Opportunità M. Carfagna e il ministro dell’Interno R. Maroni nella direzione d’allargare il numero telefonico 1522, ora solo destinato alle segnalazioni di violenza, anche in caso di stalking.

Risulta indispensabile, quindi, indirizzare la vittima, ma anche l’attore della violenza, verso professionisti psicologi, strutture specializzate (associazioni e centri antiviolenza) per il necessario supporto psicologico e per aiutare i soggetti vittima/attore a ristrutturare le proprie relazioni interpersonali in maniera corretta; serve diffondere un modello comportamentale di rispetto verso il prossimo che, solo con il tempo, potrà avere una “ricaduta” positiva sulla società, a cui si chiede di cambiare in termini di cultura e metodi.

================================================================

Chi sono gli stalker?
Chi c’è dietro questi comportamenti di stalking? È possibile tracciare un identikit dello stalker?
All’estero, da anni, si studia il fenomeno e sono stati tracciati diversi profili in base alla casistica. È importante capire anche in Italia quali possibili profili si possono tracciare, capire chi sono, che caratteristiche hanno, come li possiamo classificare per comprendere anche al meglio le strategie da adottare.
La classificazione che viene qui riportata è un adattamento alla realtà italiana di quella di Sheridan e Boon (2003), basata sia sulla relazione vittima-autore sia sulle caratteristiche dell’attore.

1) Gli ex, rancorosi
Soprattutto uomini (dai 20 fino ai 60-65 anni).
Odio e risentimento verso la ex.
Temperamento focoso e ostile, anche in presenza di altre persone, anche forze dell’ordine.
La relazione era spesso caratterizzata da maltrattamenti, violenza verbale, gelosia eccessiva, limitazione della libertà.
Minacce esplicite, in particolar modo se riferite a recriminazioni o a motivi di contenzioso.
Diffamazione della vittima con amici e parenti.
In presenza di figli, recriminazioni su affidamento dei figli, mantenimento, incontri con i figli (per imporre un controllo sulla vita dell’altra persona e limitarne la libertà).
Nuove relazioni incrementano gelosia, aggressività, atti persecutori in genere.
Gli atti persecutori possono avere origine sia da fatti fortuiti (es. inseguire la vittima dopo averla incontrata casualmente) o premeditati (es. aspettare seduti in macchina fuori dall’abitazione della vittima, inviare continui sms, telefonate o mail).
Gli ex alternano atteggiamenti positivi di riconquista e corteggiamento a vere e proprie minacce, ingiurie, aggressioni sia verbali sia fisiche e danneggiamento a oggetti e proprietà della vittima.
Aggressione verbale e/o fisica e danneggiamento a beni e proprietà nei confronti di terze persone (parenti, amici) che sostengono o aiutano la vittima.

2) Infatuato, amore delusionale
Lo stalker conosce appena la sua vittima.
Oggetto delle attenzioni è “persona amata” non una persona da “punire”.
La persona desiderata pervade i pensieri e la fantasia.
Il mondo e le cose che accadono sono lette in funzione della persona desiderata.
Il desiderio è e rimane romantico e positivo, ma quando non viene corrisposto si può manifestare anche con rabbia.
Lo stalker è convinto della reciprocità della sua infatuazione, si lancia.
Desiderio intenso (manifestato anche con rababbia).
La persona desiderata viene rintracciata e approcciata con trucchi non malevoli (es. un biglietto per due lasciato sotto il tergicristalli, farsi trovare in un posto pretendendo che l’incontro sia casuale, fare domande ad amici o colleghi su qualsiasi aspetto relativo alla vita della persona desiderata).
L’autore di queste condotte è spesso un adolescente o un giovane adulto con scarse competenze sociali e non molto attraente.
Lo stalker non è disposto a ragionare su quello che vuole la vittima.
Lo stalker si costruisce una sua realtà per cui lui (o lei) e la vittima hanno una relazione reciproca e consensuale.
Solitamente bassi livelli di pericolosità e di rischio di escalation.

3) Stalking di fissazione/sadico-alto rischio
Lo stalker tende ad essere incoerente anche se permane la sua fissazione sulla vittima.
La vittima è a elevato rischio di subire violenza fisica e/o sessuale.
È probabile che l’autore di queste condotte sia già noto alle forze dell’ordine e agli operatori sanitari per un probabile disturbo di personalità di tipo borderline con episodi di schizofrenia.
Sono frequenti i casi in cui il soggetto ha già avuto problemi di violenza sessuale e fisica, fra cui anche la messa in atto di condotte vessatorie.
Il comportamento di stalking si caratterizza per il continuo bombardamento di telefonate, lettere, mail, visite sul posto di lavoro.
Non esiste un modello comportamentale coerente, i tempi e i luoghi dove agisce lo stalker sono dei più variegati e imprevedibili.
I contenuti del materiale inviato dallo stalker e delle sue conversazioni sono velatamente osceni e di natura sessuale.
Lo stalker si pone come obiettivo quello di una relazione intima di natura sessuale con la vittima con il continuo riferimento al fatto che fra i due c’è già stata una relazione e che la vittima mostra interesse nei confronti dello stalker.
Le vittime possono essere indistintamente uomini o donne; solitamente appartengono a una classe sociale medio-alta e con una certa frequenza possono essere: professionisti (medici, professori universitari), persone famose, persone non necessariamente famose, personaggi locali attraenti.

4) Stalking per vendetta, per un “torto subito”
Clienti, pazienti, lavoratori, persone che si sentono di aver subito un’ingiustizia solitamente da un professionista (professioni di aiuto-medici, psicologi, ma anche datori di lavoro).
Cercano di essere ripagati dell’ingiustizia percepita.
Si presentano sul posto di lavoro della vittima di stalking, pretendendo di essere ascoltati, chiamano in continuazione.

Anna Costanza Baldry (criminologa)